Milan, limiti e contraddizioni del financial fair play

Milan, limiti e contraddizioni del financial fair playMilanNews.it
© foto di Daniele Buffa/Image Sport
martedì 1 gennaio 2019, 14:13News
di Fabio Anelli
fonte Di Massimo Bambara

“Le società calcistiche necessitano di un ambiente migliore, dove gli investimenti sul futuro sono premiati meglio e vi sia una maggiore credibilità nel lungo periodo”. Quando l’Uefa presentò il suo progetto legato al fair play finanziario (era il 2009), sul suo sito campeggiava questa frase come vero e proprio simbolo dell’idea nobile a cui stavano lavorando. Infatti, secondo gli intendimenti iniziali dell’Uefa, il FPF doveva essere uno strumento utile, atto a venire incontro alle esigenze dei club. Nei fatti è accaduto invece l’opposto in quanto l’Uefa, nel corso degli anni, da istituzione al servizio dei club, si è trasformata in organo decisorio che è arrivato persino ad arrogarsi la possibilità di esprimere giudizi in merito alle strategie di sviluppo industriale delle società ed ai necessari investimenti che i proprietari, legittimamente e con i loro denari, vogliono intraprendere. La questione, a nostro giudizio, non può essere inquadrata soltanto da un punto di vista sportivo, ma va affrontata in una ottica molto più vasta. L’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 2 dicembre del 2000, parla in maniera dettagliata del diritto di proprietà. Tale artiolo, infatti, dispone che «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporre e di lasciarli in eredità» e che «l’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale». Alla luce di ciò, come è possibile dire che la normativa Uefa attuale sul FPF non sia invasiva e probabilmente irrispettosa del diritto di proprietà? Come può l’Uefa sindacare in ordine alle scelte che il proprietario di un club, legittimamente, dopo averne acquisito la proprietà, vuole compiere? Ed ancora, come si concilia e come si amalgama tutta la normativa Uefa sul FPF (inasprita sul piano dei paletti e dei rimedi sanzionatori sotto la presidenza Ceferin), con il principio di concorrenza tanto caro all’Unione Europea? A nostro avviso esiste una palese contraddizione. Vediamo di andare nel dettaglio per motivarla e renderla manifesta. Il fair play finanziario è oggi un combinato disposto di norme che, di fatto, bloccano l’accesso all’élite del calcio europeo. Secondo il principio enunciato dall’Uefa, si deve poter spendere solo quanto si incassa e l’equilibrio finanziario (il deficit a fine esercizio) può conoscere passività solo entro limiti contenuti. Tutto corretto in linea di principio se stessimo parlando di società pubbliche ossia che utilizzano denaro dei contribuenti per i loro scopi. La normativa Uefa invece si occupa di società private, in alcuni casi società per azioni, che dovrebbero essere libere di investire il denaro dei propri proprietari. Le dieci sorelle che hanno già un fatturato alto, ossia superiore ai 400 milioni di euro (Manchester United, Manchester City, Arsenal, Chelsea, Liverpool, Real Madrid, Barcelllona, Juventus, Paris Saint German e Bayern Monaco) si sentono ovviamente protette da queste norme. Chi invece vorrebbe crescere come tutte le altre squadre, dovrebbe poter essere libero di investire perché l’unico modo per alzare il fatturato e quindi i ricavi, è rappresentato dai risultati sportivi e dalla disputa della Champions League per un certo numero di anni consecutivi. Per fare questo tuttavia, non è possibile derogare da investimenti robusti sulla competitività delle squadre. Si tratta insomma del classico cane che si morde la coda. Italia, Francia e Germania sono le vittime principali di questo sistema folle che impedisce a chi vuole crescere di poter investire e tutela in maniera apertamente protezionistica le posizioni di vantaggio dei top club. La concorrenza, in tutto ciò, diviene semplicemente un enunciato di principio che resta nudo dinanzi a cotante contraddizioni. Rimangono su uno sfondo più marginale a questa analisi la Spagna e l’Inghilterra per via della diversità del loro sistema calcio. La Liga ha da sempre un sistema di redistribuzione dei proventi televisivi molto iniquo, atto ad avvantaggiare Real Madrid e Barcellona che, da sole, si dividono il 50% dei ricavi televisivi globali. La Premier League invece divide la torta televisiva in maniera equa fra i 20 club della sua lega e, soprattutto, i suoi ricavi superano abbondantemente i 5 miliardi di euro l’anno, cifra che permette a tutti i club inglesi di raggiungere livelli di fatturato imponenti. Si tratta di un obiettivo utopistico, ad esempio, per la Serie A italiana che solo quest’anno è riuscita con gran fatica a superare il miliardo di euro. Di fatto, da quando è stato introdotto il FPF (sostanzialmente dal 2012), in Italia, Francia e Germania ha sempre vinto la stessa squadra negli ultimi 6 campionati. La Juventus, il PSG ed il Bayern Monaco. L’unica eccezione è stata rappresentata dal Monaco nella stagione 2016-17. Alla lunga comunque i valori veri emergono e l’impossibilità di investire per migliorarsi, priva i club concorrenti di un normale diritto alla competitività. Il Monaco, di fatto, è stata la classica eccezione, utile a confermare la regola. In base al FPF, se i conti non sono in regola (è consentito al massimo un passivo di 30 milioni di euro nell’arco di un triennio), i club “colpevoli” devono essere sottoposti ad un settlement agreement (SA), una sorta di “patteggiamento della pena” che prevede scadenze molto dettagliate e gravose. Rimanendo al seminato del campionato italiano, l’esempio della Roma sintetizza perfettamente il meccanismo mostruoso innescato dal FPF: il club capitolino, negli ultimi anni, ha dovuto cedere giocatori importanti come Rudiger, Strootman, Naingollan, Pjanjic, Gervinho, Salah in ragione del SA sottoscritto. Molti commentatori sportivi contestano a Monchi la cessione frettolosa e poco remunerativa di Salah al Liverpool, non considerando la regola di mercato per cui se sei obbligato a fare una cessione (in base al SA) entro una certa data, è lapalissiano che tu possa soltanto subire il prezzo e non di certo imporlo a chi paga. Oggi, suo malgrado, anche il Milan sta facendo i conti con questa realtà e con il meccanismo infernale innescato dal FPF.

Paolo Maldini, qualche giorno fa, è stato molto chiaro sul punto e le sue parole rivestono un significato importante: "Le regole sono più rigide, è una cosa che ha portato al calcio a non avere debiti, ma è impossibile arrivarci per una squadra che vuole tornare ad un livello alto, è molto penalizzante. Le squadre che non hanno dovuto fare il FPP sono là e guardano le altre dall'alto. Non a caso il Real Madrid ha vinto le ultime tre Champions League". Inoltre, nella stessa giornata in cui Maldini ha parlato ai giornalisti spiegando la questione, anche Leonardo ha voluto sottolineare alcune problematiche, arrivando a far presente come l’Uefa sia giunta addirittura agli avvertimenti verso quei club che, a suo giudizio, stanno operando in maniera non consona sul mercato. "Dopo l'affare Paquetà è arrivata una lettera dall'UEFA e poi una multa. Non ci saranno altri colpi di mercato, sarà un mercato di scambi e opportunità perché in generale siamo bloccati. Sicuramente servono uscite per fare acquisti e per arrivare al pareggio di bilancio non puoi fare molto". Tutto ciò oltre che parossistico e paradossale, è anche profondamente ingiusto. L’attuale club che domina in Italia infatti, la Juventus, a cavallo fra il 2007 ed il 2012, ha investito in entrata oltre 300 milioni di euro. La cifra de quo va altresì rapportata al livello dei prezzi, dell’epoca in raffronto ai prezzi attuali, che sono schizzati verso l’alto. Oggi il miglior talento under 20 (Mbappe) costa 180 milioni di euro. Nel 2007 il Milan campione d’Europa andava a prendere il più grande talento del momento (Pato, che aveva già giocato e vinto una finale di coppa del mondo per club) per 22 milioni di euro. La Juventus quindi ha potuto spendere e spandere a piacimento per tanti anni prima di trovare il “filone” giusto che le ha consentito di aprire un ciclo. Prima di arrivare al Cristiano Ronaldo attuale è passata infatti dai Diego, dai Felipe Melo, dagli Andrade, dagli Amauri, dai Martinez, dai Tiago, e da molti altri investimenti sbagliati, sopportati dalle casse del club solo grazie alla presenza dell’azionista di maggioranza Exor, pronto a ripianare le perdite ed a ricapitalizzare il club. Nel 2011 ci fu addirittura una ricapitalizzazione da oltre 120 milioni di euro nelle casse di una Juventus che ne fatturava 170 e che aveva costi per quasi 200 milioni (una follia finanziaria insostenibile sostanzialmente). Per quale ragione gli altri club che, oggi, vogliono fare semplicemente degli investimenti mirati e razionali, devono subire limitazioni, sanzioni e letterine di richiamo come se stessero commettendo chissà quale reato? L’Uefa pertanto, con questa normativa sul fair play finanziario, ha inventato uno strumento contrario ai principi enunciati in partenza, che viola l’articolo 17 della Carta di Nizza e che si pone in aperto contrasto con il principio di concorrenza. I fatti non fanno che confermare tutto questo. Negli ultimi 5 anni la Champions League è stata vinta sempre da una squadra spagnola, ben quattro volte dal Real Madrid. Inoltre i club più importanti sono riusciti a portare avanti i loro piani industriali arrivando ad avere fatturati straordinari. Tutto questo è stato possibile però grazie ad investimenti gravosi e corposi operati precedentemente dalle attuali dieci sorelle del calcio europeo. Fosse stato vigente il fair play finanziario all’epoca, oggi parleremmo di tutt’altro scenario. Ha senso che una istituzione a carattere meramente organizzativo come l’Uefa indossi i panni di un’organizzazione di controllo finanziario, stabilendo regole e paletti atti a disseminare di insidie la strada di quelle squadre che non sono nell’èlite del calcio e che vorrebbero soltanto poter essere libere di investire per tornare ad esserlo? A nostro avviso no. Il libero mercato è la conquista più grande che il mondo moderno abbia potuto ottenere. Il mercato non è equo e non conosce giudizi; si limita semplicemente a favorire domanda ed offerta. Non esiste, nel mercato, un prezzo giusto o un’operazione corretta come principio. Esiste il prezzo che ognuno scegli di pagare ed esistono le scelte che gli operatori di mercato fanno. Più viene inasprita la regolamentazione del mercato, più si incorre nel pericolo di favorire i colossi che hanno la possibilità di eludere le regole (come, per esempio, il City ed il PSG che vivono di mega-sponsorizzazioni false, utili a gonfiare la voce ricavi dei loro bilanci) e di sfavorire coloro che invece vogliono crescere. In sede Uefa, da troppo tempo fingono di ignorare tutto ciò, pensando di poter essere loro stessi a determinare criteri di giustizia e di equità. Una pretesa, sia consentito dirlo, assolutamente luciferina. Finchè qualcuno a Nyon non prenderà atto che il FPF è un insensato metal detector che impedisce ad altri club l’accesso nel sistema della competitività, continueremo a vedere campionati monotematici in Italia, Germani e Francia e ad assistere a Champions League in cui vinceranno e arriveranno in semifinale quasi sempre gli stessi. Mentre pochi club hanno la possibilità di volare in alto, tutti gli altri, appena iniziano ad aprire le ali, vengono fermati. Prendere atto di questa evidenza, sarebbe un gesto di coraggio e di amore verso lo sport. Continuare sulla strada del FPF non è altro che il modo migliore per uccidere quei meravigliosi ingredienti che rendono il calcio il gioco più bello del mondo: la competitività e i sogni dei tifosi.