Un libro che ha fatto rumore ancora prima di raggiungere gli scaffali delle librerie, chiamato a dare ancora più sapore ad una sfida già entusiasmante ed eccezionale di suo. Io, Ibra e le rivelazioni su Pep Guardiola, relative al periodo vissuto da Zlatan Ibrahimovic con addosso la casacca della squadra più forte e prestigiosa del mondo. A Barcellona, l’attaccante svedese si sente come in una prigione di vetro: da un lato ha esaudito il sogno di tutti i giocatori del momento, dall’altro si rende conto, con il passare del tempo, che tutto quel prestigio ha un prezzo altissimo. “Raggiunsi il palco che era stato preparato per me, tutto lo stadio gridava il mio nome, l’addetto stampa mi suggeriva continuamente cosa dire (Visca Barça, Forza Barça!). L’urlo del pubblico saliva, ancora e ancora, feci qualche palleggio, salutai e baciai il simbolo. Fu un gesto che in seguito mi valse un sacco
di critiche, tutti mi diedero addosso, ma in pochi sanno che gli addetti stampa mi avevano chiesto espressamente di farlo, ed io in quel momento ero un ragazzo obbediente. Avevo troppa adrenalina in corpo, tremavo”. E’ il primo giorno di Ibrahimovic da giocatore del Barcellona, quello della presentazione ad un pubblico del tutto nuovo, in una squadra del tutto nuova, sotto la guida di un tecnico del tutto nuovo: “Messi, Xavi, Iniesta sono bravi ragazzi, semplici, fortissimi in campo ma tranquilli fuori, nessuna traccia di atteggiamento fuori dalle righe. Guardiola veniva da me dopo ogni allenamento, sembrava contento di avermi ed ansioso di inserirmi nella squadra. Guardiola è un uomo del club, è catalano, ha vinto diverse volte la Liga col Barcellona, aveva il rispetto di tutti”. Anche quello di Zlatan, che fin dai primissimi giorni prova ad orientarsi in una nuova realtà, piegandosi (per la prima volta in carriera) alle regole e al modo di pensare del mondo che lo circonda. Nel frattempo i giornali spagnoli vanno avanti nella presentazione al pubblico di quello che è nient’altro che un bad boy, dal quale guardarsi bene: “Ero l’esatto contrario di quello che scrivevano i giornali, mi muovevo in punta di piedi e riflettevo tutto il tempo prima di fare le cose. Il vecchio Zlatan non c’era più! Sparito! Finii nella mia stessa ombra. Non mi era mai successo e mi dicevo che di lì a poco sarebbe passato, ma non accadde”. Ibra comincia a non sentirsi a suo agio. Segna, trascina, gioca alla grande, ma si ritrova in un ambiente strano, che lo ha accolto in maniera particolare, ma in cui è necessario uniformarsi: “Nessuno è uguale a un altro, non è sano questo modo di pensare, Guardiola ha già vinto alla guida di questo club, ma il successo ha avuto un costo, quello della fuga delle personalità più forti. Non è un caso se ha avuto problemi con me, Henry, Deco, Ronaldinho, Eto’o. Noi non siamo ragazzi normali, abbiamo minacciato la sua autorità e lui ci ha mandati via. Se ai tempi del Malmö avessi cercato di diventare come i ragazzi svedesi della squadra, oggi non sarei qui. Ascolta/non ascoltare: ecco il fondamento del mio successo. Non vale per tutti, ma di sicuro vale per me e Guardiola non capì assolutamente nulla, credeva di essere capace di plasmarmi, nel suo Barça tutti devono essere come Xavi e Messi”. Questo è il background in cui gioca Ibrahimovic al Barcellona, intorno a sé incontra diffidenza, ha un allenatore che si comporta con lui in maniera strana, ma nonostante tutto Ibra dà il massimo, anche se ogni giorno riceve occhiate e commenti strani, cerca di inserirsi meglio ma è come sbattere contro un muro, poi ci fu la svolta: “Messi, che non stava facendo un grandissimo campionato, disse a Guardiola di non voler giocare più largo ma al centro, da quel momento io non ricevetti più molti palloni, e finii gradualmente ai margini della situazione”. Poi arrivarono la sfida con l’Arsenal, i due gol di Ibra capace di sfatare il tabù Inghilterra e il Barcellona che subisce la rimonta dall’inspiegabile uscita dal campo dello svedese, e l’eliminazione in semifinale di Champions per mano dell’Inter: “Guardiola mi trattò come se fosse tutta colpa mia, nell’aria cominciava a vibrare l’esplosione”. La svolta arrivò in occasione del colloquio che i due ebbero nell’ufficio del tecnico: “Quell’uomo manca di autorità naturale, non ha nessun vero carisma. Se uno non sapesse che è l’allenatore di una squadra importante, non si accorgerebbe di lui entrando in una stanza, e adesso era lì che si contorceva. Di sicuro aspettava che fossi io a dire qualcosa, ma io non dicevo niente. Aspettavo”. “«Sì, dunque», attaccò, senza guardarmi negli occhi. «Per la prossima stagione non so cosa voglio fare di te».«Ok».«Sta a te e Mino decidere quel che sarà. Voglio dire, tu sei Ibrahimovic. Non sei uno che gioca una partita sì e due no». Voleva che rispondessi, chiaro. Ma io non sono scemo e so molto bene che chi parla di più in queste situazioni, perde. Perciò tacevo, non battevo ciglio
«Non so cosa voglio fare di te. Tu che dici? Qual è il tuo commento?». Non avevo nessun commento. «E’ tutto?», risposi soltanto. «Sì». «Allora grazie», dissi, e me ne andai”. “Immagino di essere sembrato duro, e figo. Questo almeno era ciò che speravo. Ma dentro ribollivo, e appena uscito di lì telefonai a Mino”