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La perla d'oro di nome Stephan. Che dualismo all'orizzonte

di Luca Guazzoni

Dal silenzio all’urlo. Stephan El Shaarawy in 10 giorni ha zittito tutti i critici. Erano bastate due prove arroganti contro Sampdoria e Bologna per bollarlo come acerbo, sono bastate tre prove sontuose per marchiarlo come fuoriclasse del 2016. Ecco, la verità poi sta sempre nel mezzo. Perché se le prime uscite erano state oggettivamente delle martellate sul David e giustamente la critica aveva stroncato del Faraone, ora invece non bisogna metterlo nemmeno su un piedistallo d’oro e incoronarlo pallone d’oro entro 3 anni. Anche perché il precedente non ha mica portato troppo bene.
Ora quella cresta matta lì paradossalmente può diventare una bella spina nel fianco di Allegri: nelle gerarchie El Sha sarebbe dietro Pato e Robinho – dando per assodato Pazzini come terminale offensivo standard -. Ma è più giovane, futuribile e d’impatto. I due brasiliani invece sono da via Crucis: uno non dà le ben che minime garanzie psicofisiche, l’altro è prossimo all’addio. Ed è qui che nasce la gatta da pelare. Perché se Robinho è già arruolato, Pato dovrebbe esserlo al derby, al massimo diplomaticamente dopo la sosta. Cosa fare? Togliere il Faraone dal ruolo di titolare e levargli così la fiducia emotiva che si è conquistata di slancio oppure mandare al Diavolo le gerarchie, mettere da parte Binho e bruciare Pato per proteggere l’investimento più recente? Ad Allegri la scelta. Mica facile.


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