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IL 2011 DI IBRAHIMOVIC - Via dall'incubo passando per Roma, con una capatina in libreria...Segna e fa segnare, si arrabbia e fa arrabbiare

di Francesco Somma

L’arte di rendere speciale ogni singolo successo, ogni singolo traguardo, senza avere cura del trascorrere del tempo, della fama, della bravura e del peso specifico ricoperto all’interno dello spogliatoio. Il 2011 di Zlatan Ibrahimovic è il miracolo che si ripete, il solito anno straordinario, reso unico dal solito scudetto, regalato inanellando i soliti ripetuti filotti di reti decisive. E’ l’uomo degli scudetti, il Milan lo ha scelto per questo, e lui non ha fallito. E’ arrivato in un ambiente carico e smanioso di vincere, ma consapevole dei propri limiti. Il Milan “pre-Ibra” è come una macchina da corsa, perfetta nella carrozzeria, oliata a dovere, ma a cui manca il turbo. A circondare lo svedese nel momento del ritorno a Milano, più che un clima di festa, c’è aria di attesa, c’è un ambiente carico che lo implora di caricarsi sulle spalle l’orgoglio di tutta la squadra, e portarla alla vittoria. Lui accetta, perché come ha sottolineato più volte, “le sfide mi danno adrenalina”, ed anche in rossonero riuscirà a portare a termine la sua missione di Uomo-Scudetto.
Il taglio del nastro avviene, manco a dirlo, con una prodezza: Milan-Udinese è la prima gara dell’anno, finisce 4-4 con una rete a tempo scaduto proprio del gigante di Malmoe, che di lì a sette giorni, sul campo del Lecce, metterà a segno una delle sue più belle reti rossonere. Insieme a novembre, con cinque sigilli, gennaio è il mese più prolifico di un anno che passerà agli annali come quello delle squalifiche. Quattro, di cui tre lunghe e potenzialmente deleterie per la squadra, ma alla fine prive di conseguenze ai fini della conquista del titolo. Che arriva puntuale nella città eterna, in una bella notte di fine primavera. Quella su cui passano i titoli di coda sul prato dell’Olimpico è la stagione dei gol pesanti, nel derby d’andata, contro il Napoli, contro la Lazio in trasferta e contro il Genoa, ma è anche una stagione che lo vede patire, come del resto tutta la squadra, in ambito europeo. Da settembre si volta pagina. Il Milan cambia la maglia, Ibra cambia il look: si passa da un taglio lungo e sciolto, con una barba sempre perfettamente rasa, ad una pettinatura raccolta e ordinata, puntellata da un pizzetto divenuto proverbiale in poche settimane. Esordisce con gol in campionato e in Champions, contro Lazio e Plzen,  e al giro di boa riuscirà a mettere a segno complessivamente 15 reti. In mezzo, un altro capolavoro, legato al campo solo relativamente ma non meno capace di attirare su di sé l’attenzione dei media di mezzo mondo. Parliamo naturalmente di “Io, Ibra”, la biografia a cui il fuoriclasse scandinavo ha affidato tutta la sua vita, raccontandosi per filo e per segno, senza filtri né mediazioni. Dal multietnico ghetto di Rosengaard all’imponenza dell’Amsterdam Arena; dalla corte del Sergente di Ferro Fabio Capello, al prato di San Siro, sponda rossonera, passando per la prigione dorata di Barcellona. Le squadre vanno e vengono, le maglie le indossa e le leva con spietata professionalità; rimane lui: forte, concreto, decisivo, inarrestabile, glaciale ed arrabbiato. Adora Mourinho e Mino Raiola, detesta Guardiola, teme Capello e somiglia a Van Basten, ma è solo, straordinariamente, Zlatan Ibrahimovic. E scusate se è poco…


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