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Maldini: "Liedholm fondamentale per la mia carriera. Vi spiego le differenze tra Sacchi, Capello e Ancelotti"

di Enrico Ferrazzi

Nella lunga intervista rilasciata all’AKOS podcast by Luca Gemignani, Paolo Maldini ha parlato di alcuni allenatori che ha avuto in carriera: 

Il ruolo di Liedholm nella tua carriera? “È stato fondamentale. È stato un allenatore molto moderno, eravamo una delle poche squadre che giocava con 4 difensori in linea senza seguire l’uomo a tutto campo. Già negli anni ’80 aveva pensato ai giocatori col piede invertito. A volte invertiva il terzino destro col sinistro. Io sono un destro naturale che si è adattato ad andare a sinistra. La possibilità di usare l’interno mi poteva aprire di più il gioco rispetto ad un terzino che va sulla sinistra. La mia parte debole, tra virgolette, era proprio il sinistro. Per diventare ambidestro ci ho lavorato. In fase difensiva, poi, cosa succede: sei un esterno di sinistra e quando ti vengono all’interno fai un po’ più fatica. Mentre per me quella era la mia parte più forte. La sua visione e anche il suo coraggio di mandare ragazzi giovani lo ha reso un precursore. E poi lui ti diceva sempre di non dimenticare mai che il calcio era un gioco, bisognava giocare per divertirsi. Credo che sia una cosa che vada detta ai ragazzi che iniziano a giocare nelle squadre professionistiche e a quelli che poi raggiungono, appunto, il professionismo”.

Sulla differenza tra Sacchi e Capello: “Il numero di allenamenti era uguale, erano però più lunghi (2 ore, 2 ore e mezza in campo). Prima non esisteva la mezz’ora prima dell’allenamento, adesso è un’ora due tre prima, quindi la prevenzione si faceva in campo, adesso la fanno da soli. L’intensità era sempre massimale, martedì mercoledì giovedì spesso facevamo doppio mercoledì e doppio giovedì con due doppi allenamenti a settimana. Una cosa che adesso è rara. Erano delle prove, una sperimentazione basata sul principio del lavoro, ma dal punto di vista fisico a volte non avevamo performance personali ottimali. Ricordiamoci che si parla di 35 anni fa, essere precursori 35 anni fa ti ha portato a fare degli errori ma all’interno di questi errori facevi qualcosa che ti elevava. Gli altri non è che non facevano niente, ma facevano cose diverse. Noi mischiavamo i 1000, 2000, 3000, forza, salite, era molto dura. Sviluppi determinate cose, poi Sacchi non era mai stato un calciatore di alto livello, quindi la percezione di quello che c’è bisogno non ce l’aveva faceva più fatica rispetto a Capello che poi è arrivato e ha ridotto le ore di allenamento, tenendo un’intensità molto alta perché lui sapeva che il venerdì e il sabato dovevi fare delle cose molto leggere e basate sulla reattività, esplosività. Sperimentando quelle cose lì si è raggiunta un’ottimizzazione del lavoro stesso. Devo dire che il Milan ha sempre avuto questa idea di cercare qualcosa di diverso: nel 2002, dopo due tre anni di livello medio, la società ha cercato quattro ragazzi usciti dall’università, che sembravano più pronti per venire e impostare un lavoro diverso. Sono arrivati questi quattro ragazzi che ci hanno dato un boost enorme a livello fisico, di prevenzione e di individualizzazione del lavoro, importantissimo. Avevamo giocatori di 35 anni come me e giocatori molto giovani, io ne avevo 39 e Pato 18 ad esempio: è anche impossibile pensare di allenare tutti alla stessa maniera. Anche per infortuni vari e per ruolo. Se tu giochi terzino o centrale, gli allenamenti e la fatica sono diversi. La corsa del laterale è una cosa completamente diversa dal centrale. Ti devi anche allenare in maniera diversa”.

Sugli allenamenti con Capello e Ancelotti e le differenze con Sacchi: “Era più o meno simile, ma c’è sempre da considerare le varie stagioni, cioè quando giochi la Champions League fino alla fine non hai praticamente mai tempo per riposare, quindi quello che cambia è forse la gestione del tempo libero. Dare importanza al riposo credo che sia stata una cosa fondamentale soprattutto nell’era di Ancelotti. Secondo me il segreto è richiedere tanto, ma dare anche tanta libertà dopo: giorni liberi, dare la possibilità di recuperare. Mi hanno sempre chiesto cosa facessi io durante le vacanze, perché ti danno dei programmi da seguire, tra una stagione e un’altra. Credo che il calcio sia l’unico sport che si gioca per 11 mesi, a volte anche 11 mesi e mezzo. A dire la verità io non ho mai fatto niente perché il mio corpo necessitava di riposo. L’unica stagione in cui ho fatto qualcosa è stata nel 1996 quando è nato mio figlio e avevo fatto l’Europeo in Inghilterra, ho fatto 15 giorni di lavoro e sono arrivato il primo giorno di ritiro che non stavo in piedi. Alla fine la mia grande forza era quella di riuscire a resettare tutto, a pensare alla vacanza, non pensare alla stagione appena trascorsa e neanche a quella che sarebbe arrivata e avere un recupero fisico e mentale di un certo livello”.
 


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