Una festa in polveriera. Fonseca, fantasmi in campo e alle spalle. L'unica costante è la mediocrità. "Siamo il Milan" solo a chiacchiere
Un compleanno turbolento questo 125° rossonero. Una specie di festa in polveriera dove qualche esplosivo è già scoppiato, le micce accese da Paulo Fonseca. Le sue uscite sono sempre più dirette, sempre più cruente, coraggiose o incoscienti a seconda dei punti di vista, ma il verdetto è comunque affidato al tempo. Quella sugli arbitri dopo Bergamo è apparsa una polemica anacronistica, sia per l'episodio di per sé stesso che per i toni al termine di una partita - l'ennesima - in sordina, tra più ombre che luci. L'argomento principale relativo agli arbitri non sono tanto le decisioni regolamentari singole, quanto quella statistica che si ripete da un paio di stagioni secondo cui il Milan è tra le squadre meno fallose della serie A e della Champions, eppure risulta tra le più bersagliate in assoluto tra cartellini gialli e rossi. Ecco perché secondo me dopo la sconfitta contro l'Atalanta, Fonseca ha sbagliato. Momento, temi, esempi.
Molto diverso, intestino, lo sfogo di mercoledì notte non appena archiviata la solita danza immobile contro la Stella Rossa Belgrado. Bellissimo il gol di Leao, preziosissimo quello di Abraham, pesantissime le dichiarazioni dell'allenatore che si è scagliato contro qualcuno che a Milanello, evidentemente, a suo dire non lavora tanto duramente quanto lui. La società, al solito, non si è espressa: il mutismo è la norma. L'impressione di queste ore è quindi quella di un duplice isolamento di Fonseca che non si intende con un parte della squadra e non stimola una posizione del club. Fantasmi che si agitano su una stagione incanalata in una direzione grigia, quasi cupa, eppure ancora apertissima - eccome - su tutti i fronti salvo naturalmente quello dello scudetto.
Sebbene alcuni giocatori (Morata, Abraham, Reijnders, Leao, Thiaw) dopo Bergamo e Stella Rossa si siano sintonizzati sulle parole del loro tecnico, ammettendo una continua distonia tra rendimento e risultati, la costante di questa squadra resta la modestia con difetti atavici che si trascinano dai tempi di Pioli, da dopo lo scudetto del 2022. Sembra che al Milan manchi genericamente la fame: fame di ambizioni, di vittorie, di trofei. Tutti ammettono le colpe, ma nessuno se ne assume le responsabilità e si tira avanti in silenzio. "Siamo il Milan" è rimasto uno slogan, una ciarla, una chiacchiera. Siamo il Milan e dunque. Dunque le vittorie non arrivano per storia né per grazia divina, dunque siamo il Milan e bisogna dare l'anima, sputare sangue. Dunque siamo il Milan e bisogna navigare, remare, faticare insieme per quella causa lì.
Invece no. Davanti e dietro aleggiano spiriti e spettri lasciando i dubbi sulle presenze-assenze, sulla consistenza degli uomini e delle persone, sul rispetto dei ruoli. La festa è anche fuori, con i 72.000 che ogni volta riempiono San Siro e che ci credono, dando sempre la sensazione di essere gli ultimi. Adesso si è aperta la caccia al lavativo, la caccia al pelandrone, ai lassisti, perché Fonseca ha deciso di lavare in piazza i panni di famiglia. Il brutto deve ancora venire.
Mi torna in mente quella frase che Pioli pronunciò esattamente 5 anni fa, poco dopo il suo arrivo: "Qui sembra che vincere, pareggiare o perdere non cambi la vita a nessuno". Siamo tornati a quel 2019, senza ringiovanire però, anzi invecchiando intrappolati dalle ragnatele della mediocrità.