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Che fine ha fatto il Dna Milan? La domanda da un milione di dollari oggi ha una risposta

di Fabrizio Tomasello

Il titolo pirotecnico scelto per questo editoriale è probabilmente d’impatto, ma forse non rende l'idea di quanta rabbia, mista a dolorosa rassegnazione ci sia nei pensieri di chi scrive. E forse anche in quelli di tanti tifosi rossoneri, sempre più sgomenti e avviliti di fronte alla piega presa nell'ultimo quadriennio dall'Ac Milan.
Per chiarire il mio punto di vista, prendo spunto da un paio di dichiarazioni raccolte in settimana. Due riflessioni che, in maniera trasversale e forse inconsapevole, hanno fatto luce sui problemi che affliggono il club di via Aldo Rossi da quasi un lustro. 
Il primo input è arrivato da un uomo Milan, il tecnico della Primavera rossonera, da molti indicato come erede al trono della prima squadra nella prossima stagione, Cristian Brocchi: «Io parto dal presupposto che un calciatore che veste la maglia del Milan debba essere carico a prescindere. Quando giocavo io c'era questa voglia in ogni singolo giocatore, faceva parte del nostro Dna».
A fare da contraltare alle parole di Brocchi, ecco quelle dell'esterno brasiliano della Juventus Alex Sandro, pronto a spiegare al mondo del calcio il miracolo bianconero: «Della Juve mi ha colpito la mentalità vincente, qui è come se ti impiantassero un chip appena arrivato. Questo è un grande club, c'è comunicazione e l’ambiente è molto unito».
Ora nessuno si azzardi a domandare “embè, che c’entra tutto questo con la crisi rossonera?”, perché la risposta è chiara, lampante, sotto gli occhi di tutti. La Juventus di oggi rappresenta esattamente quello che era il Milan fino a qualche anno fa, quel Milan raccontato - con la partecipazione di chi l’ha vissuto - da Cristian Brocchi. Da lui e da ogni calciatore passato a Milanello almeno fino a 5 anni fa (ricordate ad esempio le parole di Inzaghi il giorno del suo insediamento in panchina). Tutti pronti a descrivere con minuziose sfumature lo stesso tipo di emozione. 
Nessuno però è mai stato in grado di spiegare perché i protagonisti di adesso non riescano più ad inalare quell’atmosfera magica che si respirava un tempo.
La ragione è semplice: quell’atmosfera non esiste più, è evaporata, svanita, dissolta, esattamente come la voglia del presidente Berlusconi di investire ancora nel Milan e come la capacità di Galliani di mettere a segno dei colpi “da condor” sul mercato. 
I nuovi calciatori che arrivano oggi in rossonero non si inebriano, come succedeva un tempo, con l’aulenza ubriacante dei successi, dei trionfi, dello strapotere economico, tecnico e mentale. Chi sbarca oggi a Milanello annusa immediatamente i miasmi mefitici del fallimento, del disarmo, dell’abbandono, dell’improvvisazione e dell’assoluta incapacità di programmare. Ne viene permeato fino al midollo e gli effetti nefasti si vedono in campo, quando spesso e volentieri undici ragazzotti in maglia rossonera vagano per il campo senza sapere bene cosa fare e perché.
Inutile girarci attorno, l’allenatore di turno a Milanello non potrà mai sconfiggere quest’aria funesta di depressione. Nemmeno il più grande guru della panchina avrà la capacità e soprattutto il potere di fare quello che invece toccherebbe alla società: ristabilire l’ordine delle cose, ricostruire mattone dopo mattone un Milan vincente, fare sentire ai tesserati tutto il potere e la forza del club. 
Ecco cosa potrebbe restituire ai nuovi calciatori rossoneri il famoso Dna Milan. Altrimenti saremo costretti a vivere ancora lunghissime e mortificanti annate di fallimenti, mentre intanto ad appena 150 km da Arcore impiantano quei famosi microchip che una volta erano prodotti solo a Milanello.

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